Renato Sampogna è dirigente della divisione IV – Programmazione sociale. Segretario della Rete della protezione e dell’inclusione sociale. Gestione e programmazione dei trasferimenti assistenziali. Politiche per l’infanzia e l’adolescenza.
Chi sono i “care leavers?”
I care leavers possono essere definiti come dei ragazzi e delle ragazze che, al compimento della maggior età, vivono fuori dal- la famiglia di origine sulla base di un provvedimento dell’autorità giudiziaria che li abbia collocati in comunità residenziali o in affido eterofamiliare. Talvolta all’interno dell’ampia casistica rientrano anche ragazzi e ragazze interessati da un provvedimento che viene definito come “prosieguo amministrativo” che consente loro di continuare il proprio percorso su disposizione dell’autorità giudiziaria minorile fino al ventunesimo anno di età.
Direi che l’aspetto centrale che definisce il profilo dei giovani interessati è il loro coinvolgimento attivo nel percorso sperimentale. Si tratta di un passaggio figurativo ma anche esperienziale dalla tutela all’autonomia che richiede a questi giovani un cambio di cornice di riferimento e l’assunzione di un diverso paradigma incentrato sulla responsabilità; un discorso che riguarda anche l’approccio dei singoli professionisti e delle organizzazioni che a vario titolo si occupano di questo accompagnamento all’autonomia.
In questo processo è centrale l’investimento sulle risorse che il ragazzo e la ragazza può mettere in campo per costruire un proprio progetto di vita autonoma dalla famiglia di origine, che prevede appunto un’uscita dal meccanismo di tutela accompagnato da uno sviluppo delle proprie potenzialità.
Dobbiamo dunque pensare al care leaver come a un giovane adulto da “accompagnare”, attraverso l’elaborazione di un percorso fondato sulla sua stessa partecipazione ai processi decisionali e sulla coprogettazione degli interventi che lo riguardano. La partecipazione in maniera piena alle decisioni e agli interventi concernenti la vita presente e futura del giova- ne è proprio uno dei nodi centrali. In questo senso i giovani coinvolti in questa sperimentazione sono resi corresponsabili, insieme alle altre figure coinvolte, della riuscita del percorso.
In sintesi, parliamo di ragazzi e ragazze neomaggiorenni che si trovano a lasciare un sistema di cure e di accoglienza e che avviano una transizione verso una vita autonoma che, se vogliamo, a volte risulta addirittura “precoce” rispetto a quella dei loro coetanei. Non dimentichiamo che in Italia circa il 70% dei giovani tra i diciotto e i trentaquattro anni vive con almeno un genitore.
Qual è lo “spirito” e quali gli obiettivi che hanno animato l’elaborazione della sperimentazione?
Per ragazzi che arrivano da percorsi molto complicati, spesso anche di estrema fragilità, il raggiungimento della maggiore età non può corrispondere a un’improvvisa scomparsa del sistema di protezione che per anni ha caratterizzato la crescita di questi bambini e bambine costretti, per varie ragioni, a vivere in contesti alternativi alla famiglia di origine, nella quale spesso il rientro non è possibile perché permangono le condizioni di rischio e vulnerabilità qualora la famiglia sia esistente o proprio perché le figure genitoriali sono assenti.
Ecco perché si è ritenuto necessario affiancare al sistema di tutela un modello di protezione e accoglienza per i giovani in procinto di entrare nell’età adulta che in qualche modo mantenga la cura lungo quella fase di transizione da prima del compimento del diciottesimo anno fino alla maggiore età e al ventunesimo anno.
Va detto che per nessun giovane adulto è semplice trovare in sé un senso di adeguatezza e consapevolezza delle proprie capacità, a maggior ragione per questi ragazzi segnati da storie difficili è difficile sentirsi pronti all’autonomia.
Ecco perché l’obiettivo del progetto è anche di “preparare” le persone ad affrontare questo passaggio, a non farle sentire sole. Ripeto, parliamo di una fase di transizione che interessa tutti i ragazzi, i quali però solitamente hanno al proprio fianco i genitori. Quando invece queste figure sono assenti, occorre promuovere in questi neomaggioreni una consapevolezza circa i propri desideri e le azioni da intraprendere; un’operazione complessa che richiede una regia e una collaborazione fra tutti i soggetti istituzionali del territorio.
Se dovessi riassumere le finalità in poche frasi, direi che gli obiettivi sono di permettere ai ragazzi e alle ragazze di completare un percorso di crescita verso l’autonomia avendo un proprio progetto di vita; di prevenire condizioni di povertà e di esclusione sociale; di promuovere progetti integrati di accompagnamento all’uscita dall’accoglienza, anche attraverso misure di supporto alla quotidianità e scelte di vita orientate verso il proseguimento degli studi superiori universitari, la formazione professionale, l’accesso al lavoro. Tutte cose che possono essere considerate scontate e che invece per i ragazzi che vengono fuori da percorsi di tutela sono frutto di conquiste quotidiane.
In un’ottica più ampia, si tratta di attivare degli interventi di sistema che promuovano percorsi di crescita anche dei contesti locali. Parliamo pertanto di un obiettivo che riguarda la crescita dei singoli, ma anche la capacitazione istituzionale rispetto ai percorsi di presa in carico di questi giovani adulti.
Ci tengo infine a precisare che la sperimentazione non si sostituisce ad altri interventi sul campo che vengono realizzati, va piuttosto considerata come integrativa a quelle che sono le progettualità e i servizi già esistenti nei comuni e negli ambiti territoriali sociali.
Possiamo fornire alcuni dati riguardo il numero giovani inte ressati dalla misura, le aree geografiche / ambiti territoriali coinvolti e il numero e tipologia di operatori impegnati?
I giovani ad oggi coinvolti in un progetto per l’autonomia sono circa 720; si tratta di un numero in continua evoluzione perché qualora i servizi sociali reputino necessario l’inserimento di un nuovo soggetto è possibile farlo proprio perché mettiamo al centro l’interesse del ragazzo e della ragazza.
Il progetto ha visto ad oggi il coinvolgimento di 18 regioni e di circa 130 ambiti territoriali sociali, che non corrispondono necessariamente ai comuni; gli ambiti territoriali hanno varie conformazioni: all’interno di un ambito ci possono essere anche tre, cinque, dieci comuni o, ancora, dei raggruppamenti di comuni che esercitano in maniera associata la funzione sociale. I soggetti coinvolti dall’inizio della progettualità nei vari interventi sono circa 1.400, indicativamente suddivisi tra 75 referenti regionali che partecipano alla sperimentazione, 240 referenti di ambiti territoriali sociali, 815 assistenti sociali e 235 tutor per l’autonomia, che sono le altre figure centrali all’interno del progetto.
Come si svolge il progetto di autonomia e attraverso quali strumenti si costruisce un percorso personalizzato?
È fondamentale capire cosa c’è dietro le sigle e le definizioni dei progetti, come vengono garantite e messe in campo le varie attività. La sperimentazione prevede innanzitutto la predisposizione di un progetto individualizzato per l’autonomia, nell’ambito del quale il ragazzo e la ragazza vengono supportati da un’équipe multidisciplinare di professionisti; assieme si individuano le azioni e le attività attraverso le quali si prevede di trasformare quelli che sono i bisogni, i desideri del giovane in obiettivi di autonomia.
I ragazzi non sempre hanno le idee chiare su quello che vogliono e su come ottenerlo; bisogna in qualche modo decodificare alcune espressioni di desideri o volontà di fare cose: “Voglio essere autonomo”, “Voglio trovare un lavoro”. Ecco che magari in questi casi la prima azione è quella di prendere la patente per poter guidare perché magari non c’è un trasporto pubblico adeguato nel suo territorio. Il contributo dell’équipe è anche quello di aiutare la persona a ridefinire a livello operativo quelle che sono le cose da fare per realizzare i propri desideri.
La costruzione di questo progetto è quindi il risultato di un lavoro di condivisione tra i vari professionisti e il beneficiario e si fonda, come ricordavo prima, su una prospettiva di coprogettazione ma anche di corresponsabilità nell’assunzione delle decisioni.
Tutto questo viene spiegato e condiviso con il ragazzo fin dal primo momento. Trattandosi infatti di soggetti neomaggiorenni non c’è un obbligo a entrare nel progetto. È una scelta del ragazzo o comunque una sua richiesta. A differenza dei minori, che vengono sottoposti a provvedimenti di tutela su disposizione dell’autorità giudiziaria minorile, in questi casi il ragazzo è un soggetto protagonista e corresponsabile.
Come strumento, viene messa a disposizione del ragazzo una “Borsa per l’autonomia”, un contributo economico finalizzato a coprire le spese ordinarie e quelle per affrontare i percorsi scelti. Poi c’è l’aspetto della formazione: il ragazzo o la ragazza può voler completare gli studi secondari, universitari o una formazione professionale o, ancora, impegnarsi per entrare nel mercato del lavoro.
Per riassumere, i dispositivi che la sperimentazione garantisce l’accompagnamento dei care leavers sono: la valutazione multidimensionale, un progetto individualizzato che accompagna fino al ventunesimo anno d’età e che viene via via monitorato e rimodulato in base alle esigenze dei ragazzi; possiamo dire che il progetto cresce insieme al ragazzo. La capacità degli operatori sta anche nel sapere aiutare il giovane a ridefinire il suo progetto in base alle esigenze mutate.
Voglio sottolineare che il ragazzo partecipa all’équipe multidisciplinare, non ci sono degli adulti che prendono delle decisioni per lui; abbiamo bensì dei professionisti che insieme al ragazzo compongono un’équipe multidisciplinare e mettono in piedi un progetto individualizzato.
Viene inoltre messo a disposizione un “tutor per l’autonomia”, una figura adulta di riferimento che accompagna il ragazzo in questo percorso; possiamo dire che il tutor cammina a fianco del ragazzo nei primi anni ma poi fa sempre più qualche passo indietro. È una figura molto importante per giovani che vengono da percorsi di abbandono, di maltrattamento e comunque di tutela e che quindi soffrono della mancanza di una figura adulta di riferimento.
I care leavers partecipano poi ad alcune attività di gruppo. Accanto al progetto individualizzato, sono previste una se- rie di attività collettive perché si ritiene essenziale garantire al ragazzo un percorso di crescita che lo veda inserito in un contesto gruppale dove i care leavers possono farsi forza e sostenersi tra di loro; si tratta di aiutarli a costruire quella rete relazionale e amicale che a questi ragazzi spesso manca; infine c’è il sostegno economico, la borsa per l’autonomia o il reddito di cittadinanza qualora vi siano i requisiti. Per concludere, abbiamo il progetto individualizzato, le attività gruppali, l’équipe multidisciplinare, il tutor per l’autonomia e infine il sostegno economico.
Quali sono gli attori coinvolti ai vari livelli e i loro diversi compiti e ruoli?
Come ricordavo, obiettivo della sperimentazione è anche generare una crescita del territorio e del livello locale, una presa in carico di comunità di questi ragazzi che vengono da percorsi di tutela e che raggiungono la maggior età.
La sperimentazione coinvolge dunque altri protagonisti che io definisco indiretti ma che sono comunque fondamentali per promuovere i diritti e il benessere dei ragazzi e delle ragazze che beneficiano di interventi di tutela.
Volendo provare a elencarli, abbiamo da un lato i servizi locali, quindi i servizi sociali professionali dei comuni e degli ambiti territoriali sociali; il sistema formale e informale dell’accoglienza che vede il più delle volte il terzo settore come gestore delle comunità di accoglienza residenziale; infine ci sono le famiglie affidatarie e l’associazionismo familiare.
La sperimentazione si avvale di tutti questi soggetti per dar vita a un intervento corale. Questo coinvolgimento dei vari attori avviene sia a livello di singolo progetto per l’autonomia sia attraverso la costituzione di tavoli locali e regionali, dei dispositivi di governance decentrata che hanno proprio la finalità di mettere insieme e in rete i vari soggetti del territorio per coordinare le risorse che già esistono e coprogettare azioni di sistema. I tavoli sono inoltre funzionali a promuovere sui territori una prospettiva focalizzata a promuovere percorsi, non solo di autonomia, ma anche di protagonismo dei ragazzi.
Possiamo approfondire la figura del tutor per l’autonomia?
Il tutor per l’autonomia è una figura innovativa. Nelle ultime due conference nazionali mi è capitato di parlare con i ragazzi beneficiari della sperimentazione, che mi hanno confermato la centralità di questo elemento rispetto alla riuscita del loro progetto di autonomia. Come dicevo, si tratta di una figura adulta di riferimento che non solo li accompagna ma li aiuta a meglio definire i loro obiettivi e desideri. Il tutor è anche una figura terza rispetto ai servizi territoriali e agli adulti; è una sorta di mentore, cui è affidato un ruolo molto complesso, perché lavora in rete sia con il servizio sociale, sia con la comunità o la famiglia affidataria, sia con i servizi del territorio, sia con gli altri care leavers perché gestisce anche le varie attività di gruppo, cercando di tenere le fila del progetto specifico, ma anche delle risorse mobilitate attorno al percorso e degli elementi potenzialmente disfunzionali.
Il tutor opera anche per promuovere e rafforzare una rete affettiva e di sostegno del giovane. Non dimentichiamo che quello di cui parliamo è un periodo limitato nel tempo: affinché il progetto veda una piena riuscita in quei due, tre anni vanno costruite le condizioni affinché il ragazzo, raggiunti i ventuno anni sia pronto ad affrontare una vita autonoma fuori dal meccanismo di tutela.
Abbiamo citato le équipe multidisciplinari. Può parlarcene?
L’équipe multidisciplinare, costituita da diverse figure professionali, opera con una geometria variabile in base alle diverse conformazioni dei servizi sui territori.
In linea generale vedono al proprio interno la presenza dell’assistente sociale che ha avuto in carico il ragazzo e quindi bene conosce la sua storia e il suo vissuto; rappresenta un legame importante per la transizione a una vita adulta autonoma.
Include il tutor per l’autonomia e altri soggetti che possono essere, ad esempio, gli educatori del gruppo appartamento dove il ragazzo ancora risiede o la famiglia affidataria, oppure la figura dello psicologo.
In base alle esigenze del ragazzo, alla sua storia, ma anche al contesto dei servizi territoriali, l’equipe rappresenta una sorta di tavolo dove i vari soggetti coinvolti collaborano, ciascuno in base alle proprie competenze, per raggiungere l’obiettivo che assieme viene individuato.
La novità è che all’interno dell’équipe c’è anche il beneficiario, il quale, al pari degli altri professionisti, porta il suo contributo alla definizione del percorso.
Qual è l’impatto della sperimentazione su alcune figure, come ad esempio l’assistente sociale? Come si passa dal lavorare “per” a lavorare “con” il giovane?
Questo è un altro elemento importante della sperimentazione, che vede appunto un ripensamento del mestiere di alcuni professionisti. Si tratta di adottare una nuova prospettiva culturale e metodologica da parte dei servizi e delle istituzioni, il cui mandato professionale è stato strutturato attorno al paradigma della tutela e della minorità. All’assistente sociale, ma anche agli altri professionisti, si chiede infatti di guardare al care leaver come a un giovane adulto da accompagnare elaborando un approccio all’autonomia, fondato quindi sul principio di autodeterminazione. L’assunzione di questo principio comporta un riposizionamento di tutti i soggetti coinvolti nel percorso, ma anche una ridistribuzione dei ruoli nella progettazione e nell’assunzione delle responsabilità.
Nella costruzione di un progetto educativo individualizzato per un bambino la responsabilità è in capo all’assistente sociale o comunque ad altre figure adulte. In questo caso invece questo ruolo è distribuito tra varie figure, tra cui lo stesso ragazzo, che acquisisce una nuova consapevolezza rispetto a quelle che sono le azioni che mette in campo e le loro conseguenze rispetto al percorso intrapreso.
Ripeto, è una sfida culturale non solo per i ragazzi ma anche per i professionisti coinvolti nella sperimentazione. Ecco perché gli esiti della sperimentazione sono fortemente influenzati dalla capacità che dimostrerà il contesto di cambiare se stesso e di rispondere in maniera adeguata a questa prova.
Proprio in tal senso, il piano nazionale degli interventi e servizi sociali 21-23 indica la necessità, all’interno del sistema dei servizi, di una specializzazione di figure di assistenti sociali capaci di accompagnare i giovani verso l’età adulta; è un nuovo posizionamento tra il ruolo dell’assistente sociale dell’area della tutela e quello di chi segue gli adulti economicamente e socialmente più vulnerabili. Un paradigma che, riconoscendo la soggettività, la partecipazione, il protagonismo del giovane adulto, supera sia l’ottica di protezione sia la prospettiva meramente assistenziale. Viene invece messa al centro la funzione di empowerment e un lavoro svolto all’insegna del benessere e dell’autonomia di soggetti riconosciuti come competenti e capaci di decidere cos’è bene per la loro vita.
Una figura che opera anche per garantire l’attivazione di interventi, strutture e servizi che facilitano l’esercizio dei diritti di cittadinanza dei ragazzi e delle ragazze.
Quali problemi avete incontrato?
Come in ogni progetto e sperimentazione ci sono una serie di elementi positivi e innovativi che stanno tracciando una strada e al contempo una serie di nodi critici.
Direi che i nodi critici riguardano in generale le politiche giovanili nel nostro paese. Anche recentemente mi sono trovato a parlare con questi giovani e li ho incoraggiati a non considerarsi parte di una categoria di soggetti svantaggiati perché le problematiche che incontrano, certo acuite dalla loro storia complessa, in realtà riguardano tutti i giovani.
L’autonomia abitativa è un obiettivo difficile da raggiungere per tutti. Certo, se uno ha alle spalle delle figure adulte che lo sostengono può affrontare in maniera più serena questa fase, mentre per i giovani in uscita da percorsi di accoglienza la realizzazione di questo obiettivo è strettamente connesso ad altre aree di autonomia quali, ad esempio, il lavoro, la formazione e il benessere. L’accesso al mercato privato della casa per i care leavers è inibito da forti criticità di carattere economico, quali ad esempio l’insostenibilità delle caparre o l’impossibilità di fornire garanzie per il pagamento dell’affitto. I ragazzi raccontano: “Mi chiedono delle garanzie o comunque non mi affittano una casa perché hanno paura, perché non c’è nessuno dietro che può garantire per me”. Sappiamo che il mercato abitativo è particolarmente escludente nei confronti dei giovani. Problema che si fa più serio per i care leavers che affrontano la sfida di un’autonomia abitativa in un’età precoce e senza una famiglia alle spalle.
Questo tema è cruciale anche per la difficoltà di uscire dal nucleo familiare di origine e acquisire una residenza indipendente inibisce l’opportunità di presentare una dichiarazione Isee autonoma, la quale darebbe la possibilità di accedere alle prestazioni a sostegno del reddito, inclusa la borsa per l’autonomia e tutta un’altra serie di benefici.
L’altro nodo critico riguarda il mercato del lavoro; aspetto anche questo che accomuna tanti giovani e che mostra qualche difficoltà in più rispetto al caso dei care leavers; molte volte il problema riguarda la tipologia contrattuale, la durata, i tempi determinati; elementi che non consentono al ragazzo di avere quel minimo di stabilità per compiere delle scelte.
Su questo però si sono aperte delle possibilità importanti. Il progetto da questo punto di vista ha tracciato una strada: i care leavers sono stati infatti individuati quali destinatari del “collocamento mirato” ai sensi dell’articolo 18 della legge 68 del ’99. Questa è stata una grande conquista.
Un altro elemento che i ragazzi e le ragazze spesso mi segnalano è quello relativo al tempo. Emerge sempre la richiesta di tempi più lunghi per poter completare il proprio percorso. I ragazzi dicono: “Mi avete accompagnato, mi sono iscritto all’università ma a ventuno anni non ho concluso e ora mi ritrovo da solo, chi mi seguirà in questo percorso?”.
Dai ragazzi viene spesso chiesto più tempo. Dare una sorta di scadenza però è un fatto importante perché consente loro di ragionare con un orizzonte di tempo limitato e questo può fare da sprone, da motivazione. Tre anni non per tutti è un tempo congruo però a nostro avviso è un tempo giusto per garantire un accompagnamento.
È una sperimentazione articolata, con molti soggetti, molti livelli e molte discipline coinvolti. Com’è articolata la governance del progetto?
La governance è abbastanza complessa. D’altra parte, per sostenere sfide complesse anche la governance istituzionale deve attrezzarsi con un’articolazione fatta di attori di livello nazionale e decentrato, regionale e locale. A livello nazionale c’è una cabina di regia nazionale, un comitato tecnico-scientifico e un’assistenza tecnica nazionale. Quindi ci sono dei luoghi e dei tavoli di pensiero nazionale dove si monitora il progetto, si vede che impatto sta avendo sui territori e si ridefiniscono, anche da un punto di vista tecnico-scientifico, le azioni. Nel livello decentrato, sono previste l’attivazione di tavoli regionali di coordinamento: alla regione si chiede di attivare dei tavoli di coordinamento in modo tale da ricondurre quelle che sono le esperienze e le buone pratiche e al contempo di accompagnare questo percorso. Dalla dimensione regionale si passa poi ai tavoli presenti nell’ambito territoriale e sociale. In un comune, per esempio, al tavolo partecipano i servizi sanitari, l’assesso- rato al lavoro, i servizi sociali; vengono messe insieme le istituzioni che a vario titolo collaborano per l’accompagnamento e la buona riuscita dei percorsi individualizzati. Poi ci sono le équipe multidisciplinari che lavorano in maniera operativa con il ragazzo. Il compito del livello decentrato è di attivare e coordinare tutti questi collegamenti istituzionali che citavo, quindi sanità, sociale, istruzione, formazione professionale e lavoro. Questa struttura multilivello della governance prevede che ci sia una condivisione e una supervisione delle linee di progettazione generale a livello nazionale. Questo ci aiuta a mantenere un quadro generale metodologico e tecnico-scientifico condiviso su tutto il territorio nazionale; è anche un elemento di garanzia e di forza del progetto.
La governance territoriale garantisce quella giusta flessibilità per adeguare l’impianto progettuale generale a quelle che sono le esigenze delle organizzazioni presenti sul territorio e alla definizione delle azioni.
Lo sviluppo di un progetto di autonomia tiene dentro una serie di attori istituzionali e non, ognuno con un preciso ruolo. Per dire, in un progetto per l’autonomia in base agli obiettivi possono essere presenti il ragazzo o la ragazza, il referente della struttura residenziale o della famiglia affidataria, i servizi sociali educativi del comune, i servizi delle aziende sanitarie, i centri per l’impiego, le scuole, i centri per la formazione professionale, le organizzazioni del privato sociale, le agenzie formative e gli enti del terzo settore; una serie di soggetti di varia natura che vengono però tenuti insieme dal tutor per l’autonomia che deve avere la capacità di attivare tutte le risorse necessarie in base alle esigenze del progetto che è stato ideato.
Parliamo delle risorse economiche…
All’interno del Fondo povertà, istituito con la legge di bilancio 2017, c’è una quota riservata pari a cinque milioni annui per la progettazione; questo è stato previsto sia per il triennio 2018- 2020 sia per il triennio 2021-2023. Questo cosiddetto “Fondo Care leavers” è destinato a finanziare gli interventi sperimentali. Le regioni che aderiscono alla sperimentazione, da parte loro, intervengono con un cofinanziamento pari al 20% dei costi totali. Questo è anche un modo per garantire che le istituzioni entrino in un percorso condiviso, di compartecipazione. Le risorse di livello nazionale devono infatti essere integrate alle risorse e al sistema di servizi già presenti sui territori.
Può spiegarci cosa sono le Youth Conference?
Si tratta di un ulteriore strumento volto a garantire e promuovere la partecipazione dei ragazzi nella definizione non solo di un progetto individualizzato, ma anche nella costruzione di quello che è il progetto nazionale. Le Youth conference si articolano a livello locale, regionale e nazionale.
L’obiettivo qui è far emergere il punto di vista dei care leavers attraverso l’identificazione dei punti di forza, ma anche dei nodi critici della sperimentazione, che i giovani segnalano a partire dalla loro esperienza diretta. Questo loro apporto si è rivelato molto prezioso anche nella ridefinizione delle attività progettuali. Oltre agli elementi di valutazione raccolti con l’assistenza tecnica e il monitoraggio, la voce dei ragazzi è fondamentale per capire come vedono il progetto, cosa funziona, cosa non funziona e cosa andrebbe migliorato. Nelle Youth conference ragazzi e ragazze si sentono ascoltati e valorizzati anche nel poter portare il loro pensiero all’istituzione. Molte volte avvertono una distanza dall’istituzione, la vedono come una cosa lontana, inaccessibile, inarrivabile, una cosa che è di qualcun altro. Attraverso le Youth conference questa distanza si accorcia perché possono intervenire in prima persona e interloquire con il comune, con la regione, con il ministero portando il loro punto di vista.
Come funzionano in concreto? I tutor per l’autonomia realizzano una serie di attività per mettere insieme i ragazzi della regione che partecipano alla sperimentazione, nello specifico attivano una serie di laboratori in cui i giovani possono confrontarsi con le istituzioni locali e regionali e dove viene chiesto loro di valutare quello che sta accadendo nella propria regione, ma anche di fare delle proposte. Le Youth conference regionali e territoriali eleggono al loro interno dei rappresentanti che vanno a formare la Youth conference nazionale, la quale si riunisce con la cadenza di una, due volte l’anno; sono occasioni di confronto, studio e approfondimento sia con i tutor per l’autonomia, sia con i referenti territoriali e regionali e, in ultimo, con i referenti ministeriali; anche noi, infatti, partecipiamo a questi eventi come struttura ministeriale.
All’ultima Youth conference i ragazzi hanno raccontato la loro esperienza attraverso video e foto, mettendo in evidenza gli elementi di forza e i punti di debolezza; nell’occasione inviano una sorta di cartolina al Ministero, in cui ci dicono: “Sul mio territorio la mia esperienza è stata questa…”, “Abbiamo queste esigenze…”.
È anche un modo per viaggiare, conoscere altri giovani, creare delle relazioni; sono occasioni di scambio, di svago, ma anche di potenziamento delle competenze che scaturiscono dall’esperienza trasformativa del gruppo.
Avvicinandoci alla conclusione del secondo ciclo della sperimentazione, è possibile fare un bilancio e parlare delle prospettive?
In questi anni è stato fatto un grandissimo lavoro sia da parte dei territori che della struttura ministeriale; io sono dirigente della Divisione da quasi un anno; ho quindi raccolto i frutti del prezioso lavoro svolto da altri. Da un punto di vista quantitativo, la prima triennalità ha fatto registrare un incremento degli ambiti coinvolti. Si è registrata una crescente volontà dei territori di partecipare e di far propria questa sfida della sperimentazione; tendenza che si è confermata con la seconda triennalità che ha visto l’adesione di un numero ancora maggiore sia di regioni che di ambiti territoriali e sociali. La crescita, nel tempo, di regioni e Ats che aderiscono al progetto, è un segnale incoraggiante, perché manifesta la volontà e anche l’esigenza dei territori di essere accompagnati in questo processo.
Il dispositivo delle Youth conference in questi anni ha per- messo di cogliere, dalle parole dei ragazzi, il valore della sperimentazione sia nella dimensione dei progetti individuali sia nella dimensione gruppale, oltre alla centralità del tutor.
La rete territoriale, grazie ai tavoli locali e regionali, ha permesso di dare delle risposte sempre più appropriate alle esigenze avanzate dai care leavers.
È importante continuare a lavorare sui nodi critici che abbiamo accennato prima, quindi l’abitare, il lavoro e l’accompagnamento nell’ambito di una tempistica adeguata. Infine, è opportuno anche ricordare che il Piano nazionale degli interventi sociali 2021-2023 auspica che tale percorso di accompagnamento verso l’autonomia venga riconosciuto in futuro quale “livello essenziale” delle prestazioni sociali.
Il nuovo programma per il triennio 2024-2026 terrà conto, nella sua ridefinizione, di quelli che sono i messaggi e le valutazioni arrivati dai territori affinché la sperimentazione sia sempre più aderente alle esigenze e ai bisogni dei ragazzi e delle ragazze. La prospettiva per il futuro rimane molto sfidante, ma ci approntiamo ad affrontarla con la forza di quello che è già stato realizzato.
I ragazzi che arrivano a iniziare dei percorsi, anche di studio, nella fase di accompagnamento all’autonomia riescono in grandi percentuali a terminarli e anche a trovare uno sbocco lavorativo. Questo ci fa capire come non ci si debba lasciar sfiduciare dalle condizioni di partenza e dalle proprie vicende: se supportati in una fase cruciale come quella dell’arrivo alla maggiore età, questi giovani possono raggiungere ottimi risultati.
(a cura di Barbara Bertoncin)